Questioni della nuova etica

7 / 2020     RU / ITA
Questioni della nuova etica
Mons. Mauro Longhi Sacerdote dell’Opus Dei, ha vissuto molti anni in Vaticano accanto a San Giovanni Paolo II e al primo successore del Fondatore dell’Opus Dei, San Josemaria Escrivà
Che cos’è la famiglia, come costruire i rapporti tra uomo e donna, i principi da seguire nell’educazione dei figli nell’era del cambiamento globale delle norme etiche?

LT: Negli ultimi anni sempre più spesso si usa il termine «nuova etica». Lei che ne pensa di questo trend? Per Lei, i fenomeni della «nuova etica» si riscontrano nella realtà italiana? Se sì, in che modo questi fenomeni influiscono sui rapporti di lavoro e su quelli personali?

MAURO LONGHI: La questione etica è chiaramente, oggi più che mai, una questione di sopravvivenza per la umanità intera. Nel così detto Nuovo Ordine Mondiale che si sta estendendo a tutto il mondo contemporaneo, le antiche certezze etiche dalle quali erano finora sostenute le grandi singole culture, sono largamente distrutte.
La «nuova etica» prescinde dai valori, è occupata e preoccupata dalla possibilità pratica di estendersi e di dominare la comunità umana, non sulla liceità. A molti la questione della liceità appare una questione superata che non sarebbe più compatibile con la emancipazione dell’uomo da tutti i vincoli. Si dice e si professa: «ciò che è possibile fare è anche lecito fare».
Ma il vero problema si pone a un livello ancora più profondo. Ciò che accomuna il trend da lei menzionato, costituito dai conflitti sistemici, potrebbe essere espresso così: si presuppone che noi non possiamo conoscere una norma derivante dall’essenza stessa dell’uomo e delle cose, contro la quale non si potrebbe mai agire; la eticità dell’agire non sarebbe determinata dal contenuto dell’atto in quanto tale, ma dal suo scopo e dalle sue conseguenze prevedibili. Il buono in sé o il cattivo in sé non esisterebbero.
Per questo anche in Italia, per alcuni o per interi gruppi, la violenza appare come il mezzo migliore per far progredire il mondo. Violenza anche politica rivolta alla società civile, approvazione di normative lesive della dignità umana, di leggi che ledono il bene comune, in nome di interessi di potere e finanziari. Lo stiamo sperimentando in questa pandemia, dove alcuni virologi strumentalizzati si ergono a profeti, incutendo insicurezza e timore. La paura attualmente è strumento di dominio: il distanziamento imposto nelle relazioni personali, il lavoro espletato “in remoto” non sono solamente espressione di prudenza dello Stato moderno per limitare il contagio pandemico tra i cittadini ma mezzi per limitare se non per eliminare l’aiuto fraterno e la solidarietà che si dà in una comunità nei confronti del più debole, del bisognoso, dell’ammalato, dell’anziano.
In questo contesto mi preme rammentare che la fede cristiana richiede che si eserciti la intelligenza anche nell’impegno di conoscere la verità, la realtà, la natura. Lo dice san Giovanni Paolo II nella enciclica Fides et ratio (n. 66): «E necessario (…) che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina».

I principi tradizionali della vita, con i quali viene a confliggere la «nuova etica», includono dei concetti come «famiglia», «maternità» e «paternità», «fede», ecc. Oggigiorno anche questi concetti vengono interpretati in modo nuovo. Per esempio, per famiglia si intende non solo l’unione tra uomo e donna, ma anche di due uomini o di due donne. Secondo Lei, ha senso dare vita a nuovi significati dei concetti consueti, oppure dovremmo conservare significati originali delle parole «famiglia», «mamma», «papà» e così via? Potrebbe spiegare il Suo punto di vista?

Il mio punto di vista è «la verità». Ma che cosa è la verità? La verità che orienta il nostro agire si trova nel nostro essere uomini in quanto tali. La nostra «essenza», la nostra «natura» che deriva dall’esistere così come siamo, è la verità che ci istruisce. La scienza lo afferma chiaramente: mi riferisco alla antropologia medica e a quella filosofica. Il fatto che noi stessi portiamo in noi la nostra verità, che la nostra «essenza» è la nostra verità, viene espresso fra l’altro con il termine «legge naturale». Questo concetto che risale alla filosofia precristiana, fu ulteriormente sviluppato dalla filosofia e dalla teologia medioevale nel contesto anche cristiano ma ebbe una attualità e una urgenza del tutto nuova all’inizio dell’epoca moderna.

Ogni uomo è in quanto uomo, in forza della sua natura, soggetto
di diritti fondamentali che nessuno può togliergli, perché nessuna istanza umana glieli ha conferiti; ripeto, essi si trovano
nella sua stessa natura in quanto uomo

In prospettiva storica, per esempio, i grandi filosofi del diritto hanno trovato nel concetto di diritto naturale lo strumento per formulare e difendere i diritti dei popoli non cristiani difronte alle prevaricazioni dei dominatori coloniali. Questi popoli non erano membri della comunità di diritto cristiana ma non sono per questo stati penalizzati, vale a dire considerati senza diritti. Perché la natura conferisce all’uomo stesso, e in quanto tale, dei diritti. Ogni uomo è in quanto uomo, in forza della sua natura, soggetto di diritti fondamentali che nessuno può togliergli, perché nessuna istanza umana glieli ha conferiti; ripeto, essi si trovano nella sua stessa natura in quanto uomo.
Oggi tuttavia riemerge continuamente l’accusa che con il concetto di legge naturale, il cristiano si legherebbe a una metafisica superata, anzi sarebbe schiava di un naturalismo o biologismo arretrato, attribuendo a dei processi biologici il valore di leggi etiche. La risposta a questa accusa la troviamo, tra l’altro, in una citazione di San Tommaso: «La legge naturale (…) altro non è che la luce della intelligenza infusa in noi da Dio». La legge naturale è una legge razionale: avere una ragione è la natura dell’uomo. E la fede cristiana è razionale.
Così, quando diciamo «padre», «madre», «famiglia», diciamo ciò che universalmente è conosciuto dalla ragione umana, ciò che fa parte della realtà che ci precede. A nessuno è lecito interpretare o normare o modificare il contenuto di queste realtà perché sono realtà primarie che non sono fondate da nessun ordinamento giuridico o potere politico. Provengono da Dio creatore.

Vista la lotta tra il vecchio e il nuovo e anche lo stile di vita di oggi, come dovrebbero essere i rapporti tra l’uomo e la donna in famiglia e nell’ambiente lavorativo?

Rispondo ricordando un quesito pronunciato ad alta voce da san Giovanni Paolo II: «Familia, quid dicis de te ipsa?» E aggiungeva: «Una domanda, una domanda che aspetta una risposta». Eravamo in Piazza San Pietro. Era sabato 8 ottobre 1994: il primo incontro mondiale con le famiglie. Il Papa polacco aveva messo da parte i fogli del discorso preparato e parlava a braccio. Ricordo che così concluse: «Qui in questa nostra assemblea di Piazza San Pietro, la famiglia ha cercato di rispondere a questa domanda: Quid dicis de te ipsa. Ecco: Io sono, dice la famiglia. Perché tu sei? Io sono perché Colui che ha detto di sé stesso, «Solo io sono quello che sono» mi ha dato il diritto e la forza di essere: Io sono, io sono famiglia, sono l’ambiente dell’amore, sono l’ambiente della vita; io sono. Che cosa dici di te stessa? Quid dicis de te ipsa? Io sono gaudium et spes!»
La famiglia secondo il progetto divino della creazione, progetto stabilito fin da principio (cfr. Gen 1,26) è l’ambito nel quale ogni persona umana fatta a immagine e somiglianza di Dio, è concepita, nasce, cresce e si sviluppa.
Quando parlo di famiglia, mi riferisco alla famiglia fondata sul matrimonio, sul patto coniugale naturale, inteso come unione stabile e aperta alla vita di un uomo e di una donna. Così i rapporti tra uomo e donna in famiglia e nel lavoro dovrebbero riflettere innanzitutto la eguale dignità della persona umana, e conseguentemente realizzarsi nella complementarietà fisica, psicologica e ontologica della mascolinità e della femminilità. La differenza sessuale è una realtà iscritta profondamente nell’uomo e nella donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni espressione di lei e di lui.
Pertanto la sessualità non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico ma, come rammenta anche un documento della Santa Sede «è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano» (Congregazione per la Educazione Cattolica, Oreientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale, 1.11.1983, 4, Enchiridium Vaticanum 9, 423).
Perché concorrenzialità o rivalità coinvolgono la differenza di sesso? La donna, si dice, per essere sé stessa, si costituisce quale antagonista dell’uomo: agli abusi di potere, essa risponde con una strategia di ricerca del potere. Questo processo porta a una rivalità tra i sessi, in cui la identità ed il ruolo dell’uno sono assunti a svantaggio dell’altro, con la conseguenza di introdurre nella antropologia una confusione deleteria che danneggia la famiglia e i rapporti lavorativi.     

Considerando che oggi le donne fanno vedere la loro forza in modo sempre più attivo, potrebbe fare l’identikit di una «donna forte» che comunque rimane una donna senza diventare «uomo con la gonna»? Come si può trovare l’equilibrio tra la forza e la dolcezza?

L’equilibrio ha un nome: si chiama femminilità. È più di un semplice attributo del sesso femminile. La parola designa la capacità fondamentalmente umana di vivere per l’altro e grazie all’altro. In questa capacità, forza e dolcezza si fondono. Ciò si dà perché la donna conserva la intuizione profonda che il meglio della sua vita è fatto di attività orientate al risveglio dell’altro, alla sua crescita, alla sua protezione. Questa intuizione sgorga dalla sua capacità fisica di dare la vita.
Si legge in un documento di un Dicastero vaticano: «Vissuta o potenziale, tale capacità è una realtà che struttura la personalità femminile in profondità. Le consente di acquisire molto presto maturità, senso della gravità della vita e della responsabilità che essa implica. Sviluppa in lei il senso e il rispetto del concreto, che si oppone ad astrazioni spesso letali per la esistenza degli individui e della società. È essa infine (…) che possiede una capacità unica di resistere nelle avversità, di rendere la vita ancora possibile pur in situazioni estreme, di conservare un senso tenace per il futuro e da ultimo, di ricordare con le lacrime il prezzo di ogni vita umana» (Congregazione della Dottrina della fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, 31.05.2004, n. 13; L.E.V. Città del Vaticano, 2004).

E quale sarebbe il modo giusto di comportarsi per un uomo? Dovrebbe continuare a cercare di fare da leader, da «guida», o non è obbligatorio, considerando che le donne ricoprono un ruolo sempre più attivo?

Il modo giusto di comportarsi per un uomo è quello di riconoscere il ruolo insostituibile della donna in tutti gli aspetti della vita famigliare e sociale che coinvolgono le relazioni umane e la cura dell’altro.

Così pure anche nel mondo del lavoro e della organizzazione sociale, la donna è chiamata ad accedere a posti di grande responsabilità per ispirare e promuovere soluzioni innovative
ai molteplici problemi economici e sociali, soprattutto
nella linea della umanizzazione dei rapporti interpersonali

Ritengo che l’uomo nella sua mascolinità sia chiamato a rispettare ciò che Giovanni Paolo II ha definito come il genio della donna (cfr Lettera alle donne, 29.06.1995, 9-10: AAS 87, anno1995, 809-810): la sua presenza attiva e piena di fermezza nella famiglia per offrire a tutti i membri di essa gli insegnamenti fondamentali della gratuità dell’amore, del rispetto mutuo, della comprensione e del perdono.
«Il perdono – affermava Giovanni Paolo II riferendosi alla famiglia – è una forma eminente di dono che afferma la dignità dell’altro riconoscendolo per ciò che è, al di là di ciò che fa. Chi perdona permette anche a chi è perdonato di scoprire la grandezza infinita del perdono di Dio. Il perdono fa ritrovare la fiducia in sé stessi e ripristina la comunione tra le persone, dato che non può esserci vita coniugale e familiare di qualità senza una conversione costante e senza la volontà di spogliarsi dei propri egoismi» (Discorso alle giovani coppie e ai loro bambini, Parque du Mémorial, Saint-Anne-d’Auray, Francia, 20.09. 1996). La donna è chiamata ad essere la prima testimone in famiglia di questo perdono umano e divino.
Così pure anche nel mondo del lavoro e della organizzazione sociale, la donna è chiamata ad accedere a posti di grande responsabilità per ispirare e promuovere soluzioni innovative ai molteplici problemi economici e sociali, soprattutto nella linea della umanizzazione dei rapporti interpersonali.

Come invece dovrebbero essere i rapporti tra genitori e figli? Quali principi dovrebbero diventare la base per l’educazione delle nuove generazioni, prendendo in considerazione le tecnologie, trend sociali e politici in rapido mutamento?

Certamente questi rapporti tra genitori e figli dovrebbero essere improntati alla mutua conoscenza, stima, rispetto, amicizia paterna e filiale.
Mi domando sovente: perché in molte famiglie manca la gioia? La povertà più profonda delle nostre famiglie è la incapacità di gioia, il tedio della vita familiare considerata assurda e contradditoria. Questa povertà è oggi molto diffusa in forme ben diverse sia in famiglie materialmente ricche sia anche in quelle povere. L’incapacità di gioia suppone e produce l’incapacità di amare, produce l’invidia, l’avarizia e tutti i vizi che devastano la vita di singoli, delle famiglie e della società.
Perciò abbiamo bisogno innanzitutto in famiglia di una nuova educazione e formazione: se l’arte di vivere bene rimane sconosciuta, tutto il resto non funziona più. Ma questa arte non è oggetto di studio sui libri, e neppure da ricercare sul web o nei social, questa arte la possono comunicare solo coloro che posseggono questa verità che non solamente conoscono ma sperimentano: io sono voluto, ho un compito nella storia, sono accettato, sono amato. Josef Pieper nel suo libro filosofico su «Amare, sperare e credere», ha mostrato che l’uomo può accettare sé stesso solo se è accettato da qualcun altro. Ha bisogno dell’esserci dell’altro che gli dice non soltanto a parole: è bene che tu ci sia (cfr Lieben, hoffen, glauben, Monaco 1986.pp.189-254).
Afferma Benedetto XVI: «Solo a partire da un tu, l’io può trovare sé stesso. Solo se è accettato, l’io può accettare sé stesso. Chi non è amato, non può neppure amare sé stesso. Questo essere accolto viene innanzitutto dall’altra persona» (Discorso per la presentazione degli auguri natalizi alla Curia Romana, n. 5, Sala Clementina, 22.12.2011).
Le nuove generazioni soffrono troppo spesso di una pigrizia metafisica, per dirla con San Tommaso, con il quale termine si intende molto di più e di più profondo che semplice pigrizia in quanto mancanza di voglia di agire in modo creativo. San Paolo a questo riguardo parlava di mestizia di questo mondo che può condurre persino alla morte (2 Cor 7,10).  Si tratta di una strana amarezza, una rassegnazione assai lontana dallo slancio giovanile verso l’ignoto. La radice più profonda di questa tristezza è la mancanza della grande speranza e la irraggiungibilità del grande amore. Tutto ciò che c’è da sperare è conosciuto e ogni amore sfocia nella delusione per la finitezza di un mondo i cui enormi surrogati non sono che una misera copertura di una abissale disperazione. Conseguentemente il crudele gioco della violenza diventa abbastanza eccitante per creare una apparenza di soddisfazione!
L’uomo non ha fiducia nella sua propria vera grandezza. Cade in una disistima profonda. L’uomo non vuole credere che Dio si occupa di lui, lo conosce, lo ama, lo guarda, gli è vicino.

Oggi ogni persona deve cercare la propria strada in una situazione dove molti concetti ai quali è abituato non funzionano più, mentre quelli nuovi non funzionano ancora; in più la situazione nel mondo non è proprio tranquilla. Come si fa a mantenere la serenità in tutto questo? E dove si possono trovare le forze per andare avanti, adattandosi ai cambiamenti ma rimanendo sé stessi? Potrebbe illustrarcelo con un esempio personale? Cosa o chi La aiuta? In che modo Lei crea un ambiente confortevole, dove si sente al riparo e da dove prende le forze?

La vita umana non si realizza da sé. La nostra vita è una questione aperta, un progetto incompleto ancora da realizzare. La domanda fondamentale di ognuno è: come si impara l’arte di diventare veri uomini, quale è la strada alla felicità? Ecco io mi sono imbattuto in Colui che mi ha mostrato la strada della vita, la strada alla felicità: si chiama Cristo. Anzi Lui è questa strada. Ho conosciuto il Dio vicino, l’Emmanuele, il Dio-con noi, innanzitutto nella persona di mio padre; mia madre è deceduta quando avevo poco più di due anni. Il mio incontro con Cristo è stato favorito dalla azione gratuita divina che ha posto sul mio cammino successivi testimoni autentici di Cristo: per citare solo alcuni, un sacerdote santo della Chiesa cattolica, che è il fondatore dell’Opus Dei, mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer, un Pontefice santo venuto da lontano, Giovanni Paolo II.

La vita umana non si realizza da sé. La nostra vita è una questione aperta, un progetto incompleto ancora da realizzare

La Sacra Scrittura narra la storia di questo legame originario tra Dio e gli uomini che precede la stessa creazione. Nel Figlio Gesù – afferma San Paolo scrivendo ai cristiani della città di Efeso, – Egli «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati difronte a Lui nella carità» (Ef 1,4). Noi siamo amati da Dio prima ancora di venire alla esistenza! Mosso esclusivamente dal suo amore incondizionato, Egli ci ha «creati dal nulla» (cfr 2 Mac 7,28) per condurci alla piena comunione con sé.
La verità profonda della esistenza di ogni uomo è dunque racchiusa in questo sorprendente mistero: ogni persona umana è frutto di un pensiero e di un atto di amore di Dio, amore immenso, fedele, eterno (cfr. Ger 31.3). La scoperta di questa realtà è ciò che ha cambiato veramente la mia vita nel profondo. Anche nella successiva mia storia personale, prima e dopo la mia ordinazione sacerdotale, il Signore non è rimasto assente; sempre di nuovo mi viene incontro «attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nella Eucaristia» per usare una espressione di Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus caritas est, (n. 17).
L’amore di Dio rimane per sempre, è fedele a sé stesso, alla «parola data per mille generazioni» (Sal 105,8).  Ecco pertanto che soprattutto nella e attraverso la famiglia occorre riannunciare alle nuove generazioni la bellezza invitante di questo amore divino che precede e accompagna: Dio, il Signore ha chiamato me dandomi la esistenza, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta della Vergine Maria, e quella degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla Parola, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me.
Parola, preghiera ed Eucaristia sono per me il tesoro prezioso che mi permette di andare avanti. Soprattutto nella Eucaristia trovo il centro vitale del cammino: è qui che l’amore di Dio mi tocca nel sacrificio di Cristo, espressione compita di amore ed è qui che imparo sempre di nuovo, pur nella mia pochezza e fragilità, a vivere la misura alta dell’amore oblativo di Cristo; in quel Corpo donato e in quel Sangue versato c’è la mia fortezza.