Le regole dell’educazione finanziaria dei banchieri italiani Banche e crisi

2 / 2021     RU / ITA
Le regole dell’educazione finanziaria dei banchieri italiani
Giuseppe Ghisolfi Vice Presidente Gruppo Europeo Casse di Risparmio e Consigliere WBSI (Associazione Mondiale delle Casse di Risparmio) e del CNEL (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro)
Nell’ articolo si analizzano le questioni della crisi finanziaria ed economica del 2007 e il ruolo principale delle banche durante il suo avvenimento.

Una sintesi mensile del libro «Lessico finanziario» di Giuseppe Ghisolfi, un famoso banchiere e scrittore italiano sarà pubblicato mensilmente dalla nostra rivista con il gentile permesso dell’autore.
Il nome di Beppe Ghisolfi viene alla luce ed appare nelle librerie italiane tra i volumi di economia e finanza. Grazie alla sua esperienza nel giornalismo, l’autore è riuscito a rendere queste tematiche molto interessanti ed avvincenti. L’attività principale di Beppe Ghisolfi è quella Vice Presidente Gruppo Europeo Casse di Risparmio e Consigliere WBSI (Associazione Mondiale delle Casse di Risparmio) e del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro). Il libro piacerà a qualsiasi persona anche se non interessata ai temi finanziari e sicuramente diventerà un suo entusiasta lettore. Il suo libro «Lessico finanziario», che spiega tutti i termini finanziari ed economici è pubblicato sul nostro giornale ogni mese con il gentile permesso dell’autore.
«E’ un dizionario con le voci più utilizzate dalla finanza. Ogni termine ha per autore un personaggio particolarmente qualificato. Ho scelto tra professori, banchieri, avvocati, professionisti, storici ed economisti tra i più preparati che io conosca. Credo che si tratti di un’opera veramente importante ma soprattutto utile in questi tempi dove anche se non ti occupi di economia, lei si occupa di Te».

Alberto Rizzo, Avvocato cassazionista, Consigliere della BCC di Cherasco Banca locale e territorio
(Parte I)

Il diffondersi su scala internazionale delle teorie economiche neoliberiste è derivato, com’è noto, da una lettura estremizzata, e da una conseguente applicazione, del sistema dottrinario strutturato da Friedrich August von Hayek.

È storia che originari artefici di questo avvenimento siano stati, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, il governo britannico guidato dalla «lady di ferro» Margaret Thatcher e quello statunitense del presidente Reagan. Dopo un primo generalizzato dissenso popolare e una iniziale negativa risposta dello scenario economico nazionale, le scelte di politica economica adottate da Gran Bretagna e Stati Uniti, rispettivamente identificate con l’epiteto di thatcherismo e reaganomics, sono risultate vincitrici contro i mali della regressione, dell’inflazione e della disoccupazione. Da tale situazione è stata tratta, si potrebbe dire per induzione, una sorta di legge generale (il cui più famoso propugnatore è stato l’economista americano Milton Friedman) asserente che la risoluzione dei problemi economici era ravvisabile nella riduzione al minimo dell’interventismo statale e nell’esistere di un libero mercato quale metodo di autocontrollo dell’economia. Pietra angolare di questa concezione è stata individuata nella deregulation, ossia quel processo che ha indotto i governi centrali a far cessare i controlli sul mercato e ad eliminare le restrizioni sull’operatività imprenditoriale. Col divulgarsi di tali idee ogni tentativo di arrestare l’espansione del capitalismo è stato visto alla stregua di un grossolano errore teorico e pratico al contempo, e specifiche tematiche quali l’equità sociale e la generazione di sussidi per gli indigenti, la proporzionale distribuzione della ricchezza e l’utilizzo del denaro pubblico con valenza di ammortizzatore sociale, sono state concepite come non-problemi o, al più, come questioni microeconomiche con impatti ridotti in ambito macroeconomico, quest’ultimo giudicato il più attendibile rivelatore dello status di salute economica di una nazione.

Forse mai prima dell’avvento del neoliberismo, né in modo cosi palese, si era apertamente espresso che l’ostacolo principale all’espansione del benessere economico doveva essere riconosciuto nell’impianto normativo vigente, non però nel suo non essere perfetto o necessitante di miglioramenti, quanto nel suo stesso sussistere, nel suo presentarsi come estrinsecazione di vincoli, strettoie, limitazioni derivanti in buona sostanza da intendimenti economici superati, da visioni sociali stereotipate, da ideazioni tradizionali sfocianti nell’utopia, da ideologie etiche inattuabili. E giustificazione primaria di tale convinzione la si è scorta nel fatto che un sistema economico a pianificazione statale (d’impianto socialista o keynesiano che fosse), ossia che non lasciava piena libertà di azione agli operatori agenti sul mercato, veniva a determinare un’eccessiva concentrazione del potere governativo, con seri rischi per la stabilità politica della democrazia e con l’ancor più grave conseguenza data dal possibile insediarsi di regimi totalitari (come hanno ad esempio insegnato le drammatiche esperienza del bolscevismo in Russia e del nazionalsocialismo in Germania).

Per più di un ventennio tutto si è «incastrato» alla perfezione, le teorizzazioni neoliberiste funzionavano, l’espansione della ricchezza era costante, la mano invisibile del mercato di smithiana memoria aveva aperto i confini delle nazioni e progressivamente edificato l’immagine di uno Stato globale, di un impero (come l’ha definito Toni Negri), la cui solidità indiscussa si reggeva tanto su di un’economia priva di nemici, perché in fin dei conti priva di autentiche limitazioni di specie, che su di un apparato politico presso ché interamente occupato a far da dedita fedele ancella proprio all’assetto economico corrente. Ma quando la via dischiusa dal neoliberismo appariva ormai consolidata come incontrovertibile, la sua efficacia ha iniziato a vacillare (era l’estate del 2007) e del tutto inaspettatamente (anche per molti sedicenti esperti e presunti addetti ai lavori) si è addivenuto all’incirca in tempo zero al collasso su scala mondiale dell’intero sistema economico dominate. Lo shock è stato totale, si potevano solo più raccogliere i cocci, cercare i colpevoli e comprendere i motivi dell’accaduto.

Nella miriade di parole spese sull’argomento «crisi economico-finanziaria» si è giunti alla delineazione di alcuni elementi comuni cui è stata attribuita la causa del tracollo. In primis ci si è accorti che ciò che era qualificato come semplice neoliberismo si era di fatto concretato in un ultraliberismo trasformante l’economia da reale, basata sulla produzione fisica di merci, a finanziaria, fondata sull’emissione di aggregati monetari, di titoli cartacei aventi un valore indotto ma del tutto privi di alcun valore intrinseco. Si è così determinato il passaggio da una società in prevalenza di produttori ad una in preponderanza di consumatori, per la quale fine del processo economico non era più il bene tangibile, materiale, derivato da un lavoro fisico o intellettuale, ma il denaro, neutro e anonimo risultato di complessi tecnicismi basati sulla moltiplicazione del debito pubblico e privato. Se si volesse sintetizzare in una breve paradigmatica espressione il complesso delle ragioni che hanno portato al fallimento dell’economia costituita, si potrebbe affermare che la colpa dei tragici eventi verificatisi è riconducibile all’aver agito in assenza di ethos, di metron e di nomos, ovvero di una normatività etica e di una cultura del limite, che come già sapeva Aristotele, permettono di erigere un’economia propriamente detta (oikonomia, cioè la regola, nomos, per gestire correttamente secondo il comportamento del giusto mezzo, messotes, la casa, oikos, in vista del vivere bene, eu zen) distinguendola da una crematistica (chrematistikè, cioè l’abilità di procurarsi ed accumulare ricchezze, chremata) — John Kenneth Galbraith nella sua Storia dell’Economia sostiene che «Forse a Wall Street bisognerebbe leggere ancora Aristotele».

John Kenneth Galbraith nella sua Storia dell’Economia sostiene che «Forse a Wall Street bisognerebbe leggere ancora Aristotele»

Nell’orizzonte entro il quale si è tentato di individuare fonti e moventi del crollo avvenuto, un’attenzione precipua e del tutto particolareggiata è stata rivolta alla funzione svolta dalle banche. Con un moto mediatico piuttosto sbrigativo si è da più parti sentenziato che l’interezza del dissesto generatosi era da imputare unicamente alle banche e, spesso appoggiandosi ad uno scadente lavoro giornalistico di indebita uniformazione e di superficiale omologazione, le si è giudicate responsabili in blocco senza far emergere le effettive differenze, di organizzazione e di funzionalità, sussistenti tra esse, sussistenti cioè tra le diverse tipologie di intermediari creditizi operanti sul mercato dei capitali. Mansione che ogni banchiere serio e consapevole del ruolo sociale da esso ricoperto dovrebbe oggigiorno compiere è quella di provvedere, attraverso una opportuna operazione critica di disvelamento e autentificazione, a che i cittadini possano giungere a consapevolezza dei fatti imputati alle banche nel corso dell’ultima grande crisi finanziaria per quello che realmente sono stati, ovvero epurandoli dalle faziose interpretazioni e dalle errate architetture concettuali propagandate dai mezzi di comunicazione.

Текст: Светлана Догадкина