La sindrome del fiore tagliato

3 / 2021    RU / ITA
Francesco Sansone Il CEO di «Valore»
Il professor Stefano Zamagni ha tracciato un percorso che tutti noi accoglieremo nelle nostre singole responsabilità. È un percorso impegnativo ma probabilmente è l’unica strada, è intriso di antropologia positiva, di slancio verso il futuro consapevole della nostra tradizione. Lei ha citato il Rinascimento. Questa dimensione neoumanista già per molti di noi è il percorso seguito. Credo che dopo il suo intervento noi cureremo di divulgare il Suo pensiero perché c’è bisogno che queste buone idee vengano conosciute, approfondite, soprattutto tra i giovani ma e tra quelli che hanno responsabilità di guida del nostro paese.

Stefano Zamagni, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Professore dell’Università di BolognaNoi viviamo in una stagione di tipo Polaniano. La prima trasformazione fu quella magistralmente descritta da Campolani nel suo libro famoso del 1944 col riferimento alla vicenda della Prima Rivoluzione Industriale. Quindi oggi viviamo nella trasformazione della società cosiddetta moderna a quella postmoderna. È chiaro che quando si è in mezzo al guado le difficoltà paiono insormontabili. È un senso anche di paura umanamente comprensibile. Non c’è motivo di indulgere in questo. Erodoto il grande storico greco ci ha dichiarato che le sofferenze insegnano. Questa nostra stagione caratterizzata dalla sofferenza della pandemia Covid, ci sta insegnando molto. In questa occasione io dirigo la mia attenzione ad un punto particolare — all’attività e alla funzione imprenditoriale cosí come oggi vive questa stagione di profonda trasformazione, e come ho ricordato è aggravata dalla vicenda pandemica.

Noi sappiamo che l’impresa svolge molte funzioni nella società, ma un certo riduzionismo che si è venuto a determinare nel corso degli ultimi 50–60 anni ci ha portato a vedere nelle imprese soltanto alcuni aspetti. Cioè l’impresa è generatrice di ricchezza e creazione di posti di lavoro, di produzione di beni e servizi. Questo è vero, ma è un riduzionismo. Perché l’impresa è anche un agente politico, che vuol dire un agente capace di trasformazione nel contesto nel quale essa è inserita. Pensiamo soltanto alla cultura per l’impatto sull’assetto istituzionale e cosí via. Cosí non è mai stato in epoca precedente.

Pensiamo che la funzione imprenditoriale nasce in Italia, precisamente in Toscana. Nel XV secolo dell’Umanesimo civile emergono quelle figure, come Benedetto Cotrugli, il cui libro è stato recentemente rieditato in edizione critica. E se ci chiediamo che ha realizzato l’Umanesimo? Pensiamo ad un gruppo di imprenditori, che allora venivano chiamati mercanti, che avevano l’obbiettivo non soltanto di fare business, come poi si dirá oggi, ma di trasformare l’ambiente circostante. Ad esempio il Duomo di Firenze lo ha fatto costruire un Gruppo di Lanaiuoli, imprenditori della lana. E non lo ha fatto costruire il Vescovo o il Granduca dell’epoca.

Cosí gli imprenditori hanno cominciato a dire che la loro funzione non era solo quella di fare il business, che ovviamente è lo scopo principale, ma anche quella di rendere bella la città nella quale loro e altri vivevano. La stessa cosa continua nei secoli successivi, come coloro che conoscono bene la tradizione dell’aziendalismo italiano ricorderanno. Pensate le pagine che ha scritto il nostro Luigi Einaudi sulla funzione imprenditoriale. Pensiamo ancora alla figura di imprenditore come Olivetti, Crespi d’Adda, Alessandro Rossi di Vicenza e tanti altri. È accaduto che negli ultimi 50–60 anni è prevalsa una concezione riduttiva dell’impresa che nasce in ambiente anglo-sassone che ci ha rovinato la vita. Perché l’impresa è stata considerata come un nesso di contratti (secondo la definizione di Ronald Kouz, che ha ottenuto il Premio Nobel dell’economia). È stata una disgrazia dare una definizione di questo tipo. È una delle deficienze più grandi siano entrate nei libri e nelle teste di questi giovani che studiano economia. Altri vedono l’impresa come un sistema di incentivi oppure un sistema di diritti di proprietà. Queste definizioni se pure diverse hanno in comune esattamente questo: di togliere alla funzione imprenditoriale la nobile vocazione. Questo termine è stato usato poco tempo fa nell’Enciclica «Fratelli tutti» di Papa Francesco. Questo forse potrà sorprendere qualcuno, ma in questa Enciclica precedente «Laudato Si» Papa Francesco dice «L’imprenditore deve tornare a essere quel grande personaggio che è stato in altre epoche». Nell’ultima Enciclica Il Papa usa l’espressione «nobile vocazione», non un mestiere, ma una vocazione.

Che cosa ha determinato questo riduzionismo, che da un lato ha aumentato l’efficienza e la profittabilità, e dall’altro ha creato I disagi soprattutto nei confronti del management di livello superiore di vario tipo? Oggi gli studi sulla felicità ci informano che il modo in cui è organizzata l’attività produttiva ha un impatto diretto e forte sulla felicità. È accaduto che lo sforzo di aumentare i livelli di efficienza e di conseguenza di profittabilità ha di fatto eliminato quella dimensione dell’umano che fa si che un lavoro possa essere veramente una nobile vocazione. Cosí come ha determinato effetti perversi da un punto di vista di chi esercita l’azione di comando.

Oggi tutti sanno cos’è la dequalificazione del lavoro manageriale. Non c’è bisogno di essere esperti, basta parlare con gli psicoterapeuti per sentire quello che ti dicono in proposito. Perché i grandi manager di oggi sono in una crisi profonda, e che non è una crisi di profittabilità ma di identità. Perché è ovvio che per seguire un certo modello di organizzazione, e soprattutto per il tempo che devono dedicare al lavoro di vigilanza e che viene sottratto al lavoro di creatività.

Una recente indagine della McKinsey in America ha mostrato che quasi 90% del tempo di lavoro dei grandi manager è usato per controllare il lavoro degli altri, per rispondere alle e‑mail. Allora se io devo dedicare il 90% del tempo a questo tipo di lavoro, come posso pensare di essere innovativo o creativo? Oggi siamo in una situazione in cui bisogna ritornare alle origini.

Comunque ci sono tre grosse implicazioni che caratterizzano l’attività imprenditoriale e del management di oggi. La prima è la cosi detta sindrome teleopatica (l’atteggiamento in cui mi focalizzo su un obiettivo e non vedo niente altro, che in altre parole un modo per disconnettermi dalla società), l’altro è noto come «cut flower sindrome», che è la sindrome del fiore tagliato. È un’espressione idiomatica americana, che significa che si afferma la visione dei principi etici però a questa affermazione non fa riscontro un adeguamento degli stessi principi etici nel mondo con cui si conducono gli affari. Come un fiore che è una volta tagliato conserva la sua bellezza per qualche giorno e poi evidentemente appassisce.

La terza conseguenza è nota come «moral disengagement» che viene dalla esperienza americana cioè il disimpegno morale. È un processo cognitivo che serve a disattivare quei meccanismi che ci trattengono dal porre in essere azioni contrarie rispetto ai nostri principi. Questa è una delle sindromi più efficaci. Quello che oggi noi soffriamo è questo che abbiamo spogliato la funzione imprenditoriale del suo ruolo primario. E tutto questo in nome del principio dell’efficienza. Il concetto di efficienza è stato introdotto da un italiano Vilfredo Pareto che ha detto che la vera efficienza è quella che migliora il benessere collettivo.

La domanda è come migliorare la situazione? Per noi italiani basterebbe ritornare alle radici e andare a spiegarle all’estero. Perché mai come adesso il mondo anglo-sassone è alla ricerca delle idee. Da quando in sede della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali si fanno seminari con persone dei diversi paesi del mondo anglo-sassone voi non immaginate quello che ci chiedono: Perché voi italiani non tirate fuori il meglio della vostra tradizione? Io devo rispondere: perché siamo italiani. Nel senso che intende Giacomo Leopardi che ha scritto nel suo libro «L’italiano è un personaggio straordinario. Creativo quanto pochi, però non sa valorizzare le proprie radici». E voglio chiudere con questa citazione di un grande poeta indiano Tagore «Quando il sole tramonta non piangere, perché le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle». Quindi in questo momento particolare con la pandemia se non piangiamo nelle notti di sereno è possibile ammirare il luccichio di tante stelle.

 

Dottor Gianni Letta, politico e giornalista italianoIl Dottor Zamagni ha parlato dell’impresa, ma io credo che molte delle cose che ha detto riguardino la nostra società di oggi nel momento in cui viviamo. Il suo discorso è stato fatto in maniera molto positiva, quasi con ottimismo, in contrasto con il sentimento prevalente che ci affanna in questi giorni incerti e oscuri minati dalla pandemia.

In questi giorni il dibattito politico o pubblico intorno alle misure del Governo sembra indicare che le sofferenze non insegnino niente ma se insegnano è solo qualcosa di negativo. Perché mi sembra abbiano risvegliato i sentimenti o gli istinti peggiori dell’animo umano. Ma come si fa in un momento drammatico come questo a continuare il «teatrino» della politica come se nulla fosse: a continuare a discutere, a discettare, a criticare, a attaccare con un linguaggio odioso, rancoroso e a non trovare mai un’intesa.

Mi auguro che il richiamo del professor Zamagni ci porti a considerare che invece le sofferenze debbono insegnare se ancorate ai certi valori che lui ci ha illustrato in maniera splendida. Questi non riguardano soltanto la funzione imprenditoriale, ma possono riguardare ognuno di noi che sia di un’impresa che abbia una responsabilità imprenditoriale o che viva e lavori fuori di essa. Perché il disimpegno morale, la teleopatia, perché la sindrome del fiore reciso non le vediamo soltanto applicate all’impresa, ma le guardiamo, le viviamo, le soffriamo tutti i giorni nello scorrere ordinario di una vita sociale che non è più ordinata ma che diventata rissosa rancorosa e pericolosamente negativa.

Quindi richiamare a quei valori, a quell’umanesimo dell’origine del quale dovremmo tutti ritrovare quell’ancoraggio che ci porta nell’impresa come nella vita di una comunità a ritrovare un sentimento e un valore porti a considerazioni diverse e giustissime. Solo ricordando le loro radici gli imprenditori potranno ritrovare la loro nobile vocazione. E solo cosi ognuno di noi potrà ritrovare il suo posto in una società finalmente pacificata e chiamata concorrere al progresso e allo sviluppo di un mondo migliore.